Il blog di Dire Fare l'Amore
Il male naturale [recensione]
Giulio Mozzi, secondo me, scende le scale piano, perché ha lasciato mezzo pensiero nella casa da cui sta uscendo e ne volge mezzo al luogo in cui sta andando. Giulio Mozzi, sempre secondo me, mette le cose nelle tasche del giubbino ben sapendo che le ritroverà dopo diversi giorni, e allora collegherà l’oggetto ritrovato al momento in cui l’aveva affondato nella fodera e si sorprenderà a ripercorrerne la storia. Giulio Mozzi, sempre e di nuovo secondo me (ma non lo ripeterò a ogni frase: lo diamo per assodato non essendo, io, lui, e quindi potendo solo immaginare), è di quelli che non butta via niente, che trova in ogni cosa una seconda vita, che entra in un bar alla periferia della periferia di Cormano e nota il colore delle tovaglie, la marca di caffè e il tipo di targhetta adesiva che hanno messo sulla porta del bagno. Giulio Mozzi (e questo lo so, non lo immagino) viaggia molto, sempre in treno, tiene i libri nella borsa e i manoscritti sull’e-reader Sony; legge molto, ovviamente. Legge sempre, anche quando guarda fuori dal finestrino, solo che in quel caso legge le case strisciate dalla velocità, legge i campi e i fili che fanno su e giù dai pali. Legge anche le persone, cascandoci dentro con gli occhi, ed è forse proprio per questo che vede così in profondità.
Giulio Mozzi probabilmente ha paura. Di cosa, non lo voglio sapere. Ha anche sofferto, Giulio; e stavolta non metto il cognome per dare un tono più affettuoso alla frase. Giulio quella paura e quella sofferenza non le ha ovviamente cercate, ma non le ha nemmeno evitate o rimosse. Sono un male naturale, che semplicemente c’è, e al quale Giulio ha cercato di dare un nome. Sempre lo stesso, ma con diversi soprannomi.
Giulio, quando non legge libri, manoscritti, paesaggi, dettagli o persone, scrive.
Ha scritto Il male naturale, nel 1998 (Mondadori). Laurana, una piccola casa editrice che sa il fatto suo, lo ha ripubblicato ora con alcune aggiunte. Io l’ho letto tutto nella giornata di domenica 20 marzo 2011, tra le dieci e le sedici, steso al sole dell’ultimo giorno d’inverno. Leggendolo ho pensato che Giulio Mozzi scrive come scende le scale, come mette le cose nelle tasche, come porta le borse della spesa, come osserva e conserva i dettagli, come viaggia e come legge (perché per essere scrittori bisogna saper essere lettori). Una scrittura che fa i conti con la vita, ne fruga le pieghe, non ne rifiuta le contraddizioni e le ingiustizie, anzi se ne nutre, digerendo tutto e da tutto traendo energia. Non è un caso se il libro, alla sua uscita, suscitò polemiche, lodi e critiche, addirittura un’interrogazione parlamentare (di cui si racconta nell’ultima parte del volume). Perché tocca temi scomodi (la morte, l’amore delle persone handicappate, la pedofilia, le contorte deviazioni della mente) e non fa nulla per renderli comodi, per addolcire la pillola al lettore. Ma al tempo stesso compie uno sforzo immane per dargli esattamente ciò di cui ha bisogno per entrare nella vicenda. Né di più né di meno.
I racconti di questa raccolta portano in calce la data di inizio e quella di fine. Per esempio: Vite, giugno 1992 – marzo 1997; Bella, febbraio 1988 – maggio 1996. Tempi necessari di scrittura e di rilettura. Prosa consapevole, pesata, intenzionale. Parole scelte per produrre un effetto, per far succedere qualcosa. Il contrario di quanto pensa un personaggio di queste storie in un passaggio che ho trovato particolarmente vero:
«È questa l’adultità, pensa Ruota: le cose si possono fare perché diventano poco importanti; si mangia per mangiare, senza pensare a quello che si fa, senza pensare a quello che succede dentro al corpo, a quello che c’è sulla punta della forchetta. Si sta con una persona per fare conversazione, per dirsi delle cose che non fanno succedere niente.» (Vite – pag. 34)
Arrivato alla fine, mi sono chiesto se Giulio fosse stanco, al termine di ogni stesura. Io penso di sì. Lo immagino come una persona che si stanca a fare le cose perché vive ogni gesto con grande consapevolezza, come se avesse nelle mani le borse della spesa e le riempisse di tutto ciò che trova. O le usasse come una zavorra per non staccarsi dei dettagli che fanno la nostra esperienza della vita. È ancorato al terreno, Giulio, ma guarda lontano. Uno scrittore che ama la carne, ma che non se ne lascia imprigionare.
«Io voglio molto bene a questa carne della quale sono fatto e credo sinceramente di essere questa carne, anche se mi accorgo che c’è una parte di me che la carne non basta a fare e che è fatta di un’altra materia che non conosco bene: immagino che sia sottile, leggera, trasparente e femminile. Questa è la parte di me che io chiamo “anima” e penso che non sia una cosa distinta dalla carne ma compenetrata in essa: come due fiumi che si mescolano.» (Splatter – pag. 64)
Giulio Mozzi
Il male naturale
Laurana editore 2011
208 pp. 15,50 €
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